La corsia della piscina con l’acqua bassa, circa un metro e quaranta, è libera. Le altre sono invase dai ragazzi che un po’ imparano a nuotare e un po’ fanno gare tra loro. Sono allegri, schiamazzano, spruzzano schizzi e vitalità fra grida e risate. Nella corsia bassa non c’è nessuno, loro la disdegnano, giustamente. È roba per bambini, anziani e schiappe. È il posto giusto per me. Che non sono anziana, non ancora. E non sono certo una bambina. Forse sono una schiappa, ma non è questo il motivo per cui mi ritrovo qui.

Sto aspettando il mio rieducatore funzionale. O personal trainer. O ultima mia speranza di alleviare alcuni problemi muscolo scheletrici che da tempo rendono la mia esistenza un doloroso calvario. Sono in anticipo, lui non c’è e io mi immergo, non riuscendo a resistere alla tentazione di un’acqua così tranquilla e deserta.

È meraviglioso. A parte l’odore del cloro, pungente e attaccaticcio, che non se ne va neppure dopo due docce e che impregna ancora il costume dopo ripetuti lavaggi, a parte ciò, dicevo, è un momento meraviglioso. L’acqua piatta, turbolenti ragazzi nelle corsie accanto permettendo, ti invita a planare su un altro mondo. Un mondo dove non hai peso, dove un principio fondamentale della fisica che a stento ricordi ti mantiene a galla anche se non vuoi. Dove dimentichi, o ci provi, un po’ di guai fisici.

In realtà non sono sola, in questa corsia preferenziale. Un ragazzino disabile la percorre in senso inverso al mio, insieme a un uomo che in un primo tempo ritengo sia suo padre, ma che poi scopro essere un rieducatore.

Già, anche lui come me. Accomunati nella sofferenza, bambino, ma non ci sono dubbi che tu stai molto peggio di me.

Lo avevo visto arrivare, il ragazzino, accompagnato da due adulti: la fatica terrestre di mettere un passo dopo l’altro quando muscoli e nervi non collaborano, eppure, caparbiamente messi alla prova, costretti a fare in qualche modo, in qualunque modo, il proprio dovere.

Ora lui è in acqua, sostenuto dal suo educatore, mentre io nuoto lentamente in senso opposto, nel consueto stile a papera, aspettando il mio.

Quando ci incrociamo ci guardiamo, ma lui non mi vede.

Il ragazzino avrà più o meno dodici anni, ha un viso bello, delicato e occhi chiari, grigi o verdi, che risplendono nell’azzurro della ceramica di questa enorme vasca da bagno. Ha il capo appoggiato sulla spalla dell’uomo, con fiducia e abbandono. Forse anche con stanchezza. O chissà, magari non si sente così stanco. Forse come me avverte gioioso la leggerezza della mancanza di peso; forse, come me, si muove meglio in ammollo che sulla terraferma, mentre articolazioni, muscoli e ossa non si lamentano, non protestano a ogni movimento. Gli sorrido, comprensiva.

Al giro di ritorno ci ritroviamo di nuovo a metà percorso, segno che abbiamo gli stessi lenti tempi. Adesso lui è disteso, sempre sostenuto dall’uomo che gli parla piano, con dolcezza, e ha la testa per metà sott’acqua. Quegli occhi così chiari con le ciglia bagnate che sbucano da sopra il pelo dell’acqua mi ricordano per un attimo una pubblicità televisiva di qualche tempo fa. Non so più di cosa trattasse, forse un collirio, ma ricordo l’immagine della modella, bellissima, con gli occhi a fior d’acqua, chiari e lucenti come quelli del ragazzino. L’idea del creativo era probabilmente comunicare che fosse il collirio in questione a renderli indimenticabili. Vai a sapere, creativo, che dopo tutto non serve il collirio. Questo bambino ha gli occhi uguali alla modella e di sicuro non gliele mettono le gocce magiche. Soprattutto in questo momento.

Di nuovo incrociamo gli sguardi e di nuovo gli sorrido, senza ottenere risposta.

Mi sento pienamente solidale con lui. Sento unirsi le sofferenze, che sono pure diverse e forse non paragonabili. Io, nel mio concetto di cosiddetta normalità, lui, nel suo concetto di cosiddetta diversità, siamo fratelli. Perché se non la ragione almeno il dolore e il cuore uniscono.

Non posso sapere se e quanto lui sia in grado di formulare un pensiero o di capire quello espresso dagli altri. Mi sento però autorizzata a credere che la spasticità che inchioda i suoi arti non sia indolore quando tenta di camminare come tutti o di fare qualche altro movimento. E il dolore lo sente qualunque essere vivente. Lo sento anche io che so di poter pensare e descrivere quello che provo, e che posso muovermi anche sulla terraferma con più disinvoltura di quanto tocchi a lui. Abbiamo male tutti e due, bambino. Entrambi sperimentiamo che la lievità dell’acqua ci reca sollievo e nel contempo ci fa guadagnare qualche punto di tonicità. I muscoli si distendono, si muovono senza gemere, senza contrarsi, e a noi sembra di volare.

A me piace, bambino, e a te?

Mi piace galleggiare, mi piace nuotare lentamente come una paperetta pigra, mi piace fare finta di stare bene. Vorrei sapere se piace anche a te.

Ma certo, ti piace, altrimenti ti ribelleresti. Forse non hai il dono della parola, forse il tuo pensiero è solo un lampo, un istinto, un gomitolo intricato, ma sono certa che sapresti ribellarti a qualcosa che non ti piace, che ti stanca, che ti fa stare male.

Il bambino invece continua il suo lavoro. E adesso mette anche per qualche attimo tutta la testa sott’acqua. È più bravo di me, che non arrivo a tanto. Lui sa che stare là sotto per pochi istanti è rientrare nella pancia della mamma, dove il mondo è altrettanto liquido e rassicurante anche se non sa di cloro. Non c’è d’aver paura, ha ragione lui.

Certo io non ho nessuno che mi sostiene, galleggio da sola e da sola dovrei vincere la resistenza ad andare sotto, sfidando la paura delle conseguenze che l’immersione avrebbe sulle mie orecchie delicate. Sono quasi tentata.

Ma la magia si interrompe.

Arriva il momento per me di lavorare sodo, di fare esercizi noiosi ma necessari e che talvolta mi sono ostici. Anche al ragazzino non deve risultare tutto facile quello che fa, sulla terra come in acqua. Ma non l’ho udito lamentarsi, ha fatto quello che doveva, semplicemente.

Di nuovo con le mie difficoltà di coordinamento motorio mi sento uguale a lui, anche se so benissimo chi tra noi due sta messo peggio.

Lo cerco con lo sguardo mentre cammino con il passo dell’oca sfidando il moto impresso all’acqua dalle vigorose nuotate dei ragazzi della corsia accanto, ancorandomi con gli artigli al fondo per non farmi sbatacchiare come un’alga. È uscito, è disteso sulle gambe dei suoi accompagnatori avvolto nell’accappatoio. Il viso è voltato verso la vasca, sereno, gli occhi splendenti che non mi sfiorano neppure. Sembra sfinito, ma soddisfatto. Nessun capriccio, nessuna smania né di rituffarsi né di andarsene. In pace, eppure attratto, a me pare evidente, da tutto quel blu.

Gli sorrido ancora, con il pensiero gli scompiglio i ricci bagnati e mi concentro con più impegno su quello che sto facendo.

Lo faccio per lui. Glielo devo.

Il testo soprariportato è stato scritto da Ramona Corrado Blog
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